Traduttore Novarese P.
“Mi chiamo Kathy H.”. La frase d’apertura dell’ultimo romanzo di Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, rende il tono e presagisce il tema di quest’opera incrinata ma costantemente sconvolgente. Da un lato la voce del narratore è colloquiale, aperta alla chiacchierata informale col lettore, dall’altro c’è qualcosa di sinistro in quel cognome amputato, che porta alla mente i travagli di Joseph K. di Kafka. Il riferimento non è nemmeno così lontano dal segno. Nei suoi lavori precedenti, specialmente ne Gli Inconsolabili del ’95, Ishiguro ha adottato quello che potrebbe vedersi come il marchio kafkiano di un distaccato senso dell’orrido. Se ad esempio pensiamo a quel piccolo capolavoro che è Nella Colonia Penale (in cui un direttore illustra orgoglioso il funzionamento di un sofisticato congegno di tortura), il disagio che la storia causa nel lettore può essere ricondotto meno alla spiegazione di come il corpo umano venga tormentato dalla macchina, e più al fatto che il comandante non riesca a vedere quel che c’è di terrificante nella situazione.
E’ una simile indifferenza, o una distorsione nel riconoscere qualcosa di fondamentalmente sbagliato, che regge la storia di Kathy. Ad uno sguardo di superficie, la protagonista rievoca dal presente (sul finire degli anni ’90) le amicizie e le abitudini che le sembravano fondamentali quando frequentava Hailsham, un collegio misto situato da qualche parte nella campagna inglese. Tuttavia, inframmezzato ai suoi ricordi degli anni ’70 delle chiacchierate al buio con le altre ragazze, dei portamatite colorati, delle litigate con la sua migliore amica, e di un fanatismo per una certa Miss Geraldine, ritroviamo un costante stillicidio del terrore. Come la parola “donazioni”, che salta continuamente fuori. O rigorose visite mediche che vengono effettuate ogni settimana. E il fumo è tabù al punto tale che le fotografie di persone con le sigarette sono tagliate via dai libri. E gli insegnanti non sono solo insegnanti, ma “tutori”: il titolo è appropriato perché gli alunni di Hailsham sembrano non avere genitori. Infatti, come gradualmente si palesa nel lettore, per Kathy, Ruth, Tommy e il resto dei bambini, Hailsham è il loro mondo.
Ishiguro potrebbe essere accusato di stuzzicarci eccessivamente, poiché è con estrema cautela che toglie via gli strati di finzione che nascondono l’oscurità del nucleo di Hailsham. La storia di Kathy H. è interrotta – qualcuno potrebbe dire che la sua storia è soprattutto interruzione – pressoché ad ogni pagina, da esitazioni, ricapitolazioni e reintroduzioni. Ad esempio, un passaggio come questo presenta un contenuto informazionale piuttosto basso:
“E’ pur possibile che io abbia cominciato a comprendere, proprio allora, la natura delle sue preoccupazioni e frustrazioni. Ma magari sto andando troppo lontano; è probabile che all’epoca abbia notato tutte quelle cose senza sapere che diavolo farmene. E se tutti questi episodi ora sembrano significativi e coerenti, è forse perché li sto guardando alla luce di ciò che è avvenuto in seguito […]”.
Alcuni critici hanno accusato Ishiguro di riempire, allungare un convenzionale soggetto di fantascienza per farlo divenire romanzo. Ma l’esperienza di leggerlo comporta qualcosa di più profondo. E’ come se il frammentato racconto di Kathy H. riflettesse il modo in cui abbia raggiunto la riluttante (e parziale) consapevolezza di un sistema, di un perverso sistema di valori che in precedenza aveva dato per scontato. Come qualcuno che è cresciuto in un macello, Kathy non è di certo in sintonia con il triste lamento delle creature che devono essere uccise. In questo caso, comunque, l’osservatore e la vittima coincidono: Hailsham, con tutte le sue pretese di decoro della scuola pubblica, è di fatto un tipo di anticamera al mattatoio. Il posto è una menzogna.
Ma Kathy e i suoi amici sembrerebbero accettare il loro destino con la docilità del bestiame. Certo altri lettori saranno esasperati da questa apparente mancanza di attendibilità. Perché non si ribellano, non scappano, o addirittura non uccidono i responsabili? Almeno su un piano, Ishiguro aderisce al realismo. Per giungere a un tema che fluttua ai margini del libro, l’Olocausto, bisogna ricordare l’impenetrabile questione del perché in tanti siano saliti sui treni con così sottomessa obbedienza. Infine, la passività dei personaggi di Ishiguro è aderente allo strano mondo kafkiano che egli ricrea. E’ un mondo in cui gli ospedali che uccidono i cloni fanno parte del paesaggio quanto i grandi magazzini e i distributori di benzina dell’autostrada. La loro esistenza è semplicemente un dato.
E’ solo alla fine del libro che questo mondo ermetico si disgrega. Dandoci una spiegazione di Hailsham, e del sistema di cui è parte, l’autore paradossalmente li rende meno plausibili.
Ma mentre Kathy comincia ad accettare a malavoglia le disgustose implicazioni del ruolo per cui lei e i suoi amici sono venuti al mondo, alcune domande più profonde, di natura esistenziale potrebbero ribollire nella coscienza del lettore. Hailsham ha cresciuto questi bambini perché diventassero adulti intelligenti e beneducati. Ha concesso loro il tempo di farsi delle amicizie, addirittura di innamorarsi. Qual era il punto di tutto quello, chiede Kathy, dato il loro ultimo destino? Fornendoci un resoconto attento di vite il cui scopo principale è finire – nel gergo del libro morire è “completarsi” – Ishiguro ci obbliga a domandare a noi stessi se possa essere mai inutile impegnarsi nella sporca faccenda del vivere, anche se l’estinzione dovesse metterci una pietra sopra.
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