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Racconti a margine

“Parigi”

13/12/2012  
Salvatore Vasta, Timeoutintensiva OpeNetwork

“Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso
arrivato alla tua porta,
nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà
al benvenuto dell'altro.”

Da “Amore dopo amore”
di Derek Walcott



Quella notte il sogno ritornò, ma, data l’intensa angoscia, stavolta l’aveva vissuto come un terribile incubo. Si trovava in una grande stanza d’ospedale con tanti letti. Coricata in uno di essi, completamente vestita, si sentiva proprio bene. Era anche allegra a guardare tutti quei medici, infermieri e parenti dei ricoverati, che giravano attorno ai vari pazienti. Ma accanto a lei non c’era nessuno. Tranne di fronte, ai piedi del letto, dove un’altra donna, che le somigliava quanto una sua immagine allo specchio, stava seduta con una rivista in mano sfogliata lentamente e ogni tanto alzava la testa, scrutandola con aria interrogativa, aspettando che si alzasse, per andare via insieme. Ma lei, coricata lì, se la scialava, guardando i vari medici e infermieri, che ormai conosceva, salutarla sorridenti. Era bello avere tutti loro intorno, le davano un senso di pace, di sicurezza e benessere. Ad un certo punto le sembrò di vedere aggirarsi tra i ricoverati Mario, il suo medico preferito. Con un cenno lo chiamò, e lui le andò incontro. Ma, mentre le veniva vicino, perdeva la sua tuta verde, il suo viso rassicurante, e diventava come un passante, uno qualunque. Che per giunta andava di fretta, a tal punto che le si avvicinava per un attimo, con occhio interrogativo, quasi a chiederle che volesse, e poi scappava via per badare ai fatti suoi. Rimessasi a guardare l’andirivieni, ora tutto intorno non c’erano più medici e infermieri ma passanti sconosciuti, anonimi, che giravano distratti attorno ai letti, non badando ai tanti come lei lì coricati. E d’improvviso sentì freddo ed il tremore interno riprese. Così si alzò e, messasi le scarpe, si avvicinò all’altra se stessa, toccandole una spalla come a dirle andiamo. Ed insieme, si diressero verso un grande corridoio che portava all’uscita. Un corridoio buio, pieno di nebbia, dove molto presto perse di vista l’altra lei, che la precedeva. Tentò, ma non riuscì a raggiungerla. Le sue gambe non rispondevano più. Paralizzata, immersa nel freddo d’una nebbia densa ed impalpabile, completamente sola, rabbrividì angosciata, ma la paralisi saliva, saliva e respirare le era sempre più difficile. Ormai in ginocchio, pianse, e con la mente gridò aiuto, ma dalla gola non uscì un gemito. Raggomitolata lì per terra, boccheggiava come un pesce. Stava soffocando. Aria... aria! La testa cominciò a girarle, si sentì venire meno. Sto morendo... sto morendo! Si svegliò, tutta sudata, respirando forte come un mantice, disorientata. Accese la luce e si guardò intorno, ritrovando la sua camera da letto. Si alzò, aprì le tende e la finestra e si riempì dell’aria umida dell’alba. Cercò di calmarsi. Il panico del ricordo piano piano scappò via. Suo marito, che intanto si era svegliato e aveva tentato di calmarla, le disse: “Ti preparo qualcosa di caldo.” Dopo aver bevuto, si misero di là a parlare, perché dormire no che non si poteva più. Con una tazza di camomilla tra le mani, quella notte pensò a quel sogno, come fosse una spinta verso l’“Uscita”, come la chiamava lei, dallo stato d’animo di ex ricoverata, ma in quell’incubo il terrore era così forte, così agghiacciante. In tutto simile alla crisi di panico che aveva avuto giorni prima. Sì, si disse, identico.

Un pomeriggio della settimana passata, infatti, stava mettendo le camicie in lavatrice e d’improvviso se ne era andata la luce. Era rimasta per un momento immobile aspettando che tornasse, poi di colpo cominciò ad avere paura. Paura del buio, della stanza, dei suoi movimenti, della sedia, di tutto. Una paura senza scopo senso o causa. Una paura solida, tangibile, che restava lì nella sua testa e sul suo corpo, e non le permetteva di pensare se non di essere impaurita, e forse neanche quello, dato che era la sua carne paura, la sua pelle, lei stessa. Con la mente cieca, priva di qualsiasi capacità di ideare, aveva fatto l’unica cosa che la paura le aveva permesso: vestirsi, automaticamente, come per uscire. Ma non aveva macchina, ed era scesa in strada e, sempre impaurita, aveva cominciato a camminare. La paura, le aveva messo le ali ai piedi, dandole inconsciamente la direzione. Svoltò e svoltò per le vie, quasi correndo, sino a ritrovarsi davanti al “suo” ospedale, non sapendo dove andare, se in Rianimazione, da dove l’avevano dimessa nove mesi prima o al Pronto Soccorso. E, ferma lì a decidere, d’improvviso la paura, come era arrivata, se ne andò. Passata, scomparsa. Un’onda alta che ti travolge affogandoti, e quando, in un attimo, poi si ritira, ti lascia disfatta e boccheggiante. Schiacciata lì dove ti trovi, stanchissima, con le gambe che ti tremano e la mente ingolfata da pensieri aggrovigliati come rovi pungenti, mille spine che ti graffiano. Piangendo, pregò che non tornasse.

Una "Crisi di panico" le avevano poi detto in PS. E anche Mario, che per caso quella sera era di guardia, il “suo” medico, quello che in terapia intensiva si era preso cura di lei e che ora continuava a seguirla tramite l’ambulatorio che controllava periodicamente i dimessi, le aveva detto che probabilmente era stata davvero una crisi di panico, e che a volte dopo un ricovero si andava incontro a stati d’animo del genere. Siccome era tardi e lo psicologo che seguiva l’ambulatorio non c’era, forse era meglio prescriverle qualcosa per permetterle di dormire, ed evitare che la paura tornasse. Così, il medico del Pronto Soccorso, dopo un conciliabolo con Mario, le prescrisse il farmaco da prendere, dicendole di tornare il pomeriggio successivo, per la visita con la psichiatra che seguiva i pazienti dimessi dalla terapia intensiva. “La stessa che mi seguiva durante il ricovero, dopo il risveglio ?” chiese, con un senso di sconforto. Non le era mai piaciuta. No, un’altra, disse Mario, una psicoterapeuta che li collaborava per alcuni pazienti dimessi. Così, aveva chiamato a casa il marito ed ora lì in cucina, nel silenzio della sua casa, quelle gocce le diedero sbadigli e finalmente il sonno.

Eccomi qua aveva pensato, seduta nella stanza delle visite. Era già il giorno dopo, fuori il buio, la stanza ben illuminata e la dottoressa, che l’aveva ricevuta, con la sua faccia solare, sembrava lì solo per ascoltare ciò che le era successo; e lei che non sapeva da dove cominciare, ma in qualche maniera cominciò. Prima poche parole, balbettii, poi si aprì come un torrente in piena. Così le raccontò della sua grave malattia, che l’aveva portata quasi a morirne, per poi rivivere dopo l’arresto cardiaco ripreso; e della sua lunga degenza. Di come, da quando si era svegliata in rianimazione, lei si fosse sentita sempre meglio, rassicurata da tutti intorno, con suo marito che non la lasciava un momento dato che, per fortuna, quella era una terapia intensiva aperta ai familiari, dove si era creata quasi un’amicizia, un senso di vicinanza con medici e infermieri che l’accudivano, sino a quando non aveva mosso i primi passi. E del suo ritorno a casa, dimessa finalmente, delle feste dei vicini, dei parenti, degli amici, dei semplici conoscenti. Ma di come, finito il clamore, non aveva quasi più messo piede fuori di casa. Usciva ormai di rado. Spesso, le disse, per strada, si sentiva come in un posto sconosciuto, non si raccapezzava dove fosse, girava a vuoto. Solo durante le visite periodiche di controllo lì in Rianimazione, nelle quali era circondata dall’ambiente che l’aveva curata, ritrovava il suo umore di sempre. Quasi fosse una di loro. Ma, aggiunse, piano piano anche quegli incontri le erano divenuti ostili. Durante il ricovero, parlare colloquiare scherzare, in una parola la vita e la comunicazione, erano fatti di atti, di mani, di cambi di lenzuola e pulizia, di terapia, lastre visite ed esami; di parole, abbracci, baci e sentimenti. Mentre ora, quando ci tornava, più di un caldo benvenuto prima di un: “Devo tornare di là.” di medici e infermieri, altro non c’era. Come se la comunicazione e l’amicizia con loro, con il loro mondo, fosse solo la malattia a permettergliela. Ed ora che era fuori, non c’era più parola, affetto o vicinanza, ma solo un rapido sorriso e via. Loro! Che con lei avevano condiviso la parte forse più importante della sua esistenza. Ed era da lì, da quel primo senso di estraneità da gente cui aveva affidato la propria vita, che era iniziato il suo sogno, di cui le raccontò i tratti essenziali e che si ripeteva da settimane sempre uguale, assumendo sempre più le caratteristiche di un incubo terrifico. Ed ora la crisi di panico. Si fermò un attimo nel racconto, si sentiva stanca, le pareva che non ci fosse più tempo a disposizione, e guardò l’orologio, mentre la dottoressa le versava dell’acqua che aveva chiesto. Bevve e le venne in mente, senza ragione, quella cosa strana capitata a Parigi. Così, posato il bicchiere, glielo disse, dicendole anche che non sapeva se poteva essere importante e se c’era ancora tempo. Ma la dottoressa, al contrario, sembrò molto interessata a Parigi. Era stata quasi sempre in silenzio ad ascoltarla, ma questa volta la invitò: “Me ne parli, se vuole,” le disse con quei suoi occhi attenti, “abbiamo ancora del tempo.”. Così, sull’onda del ricordo, le raccontò che in un momento di benessere, circa quattro mesi dopo la dimissione, avevano fatto, con il marito, una breve vacanza a Parigi, quando ormai camminare non la stancava più. A quel tempo la paura ed i tremori, erano ancora “vivibili”. E così erano andati in giro, anche se lei, dentro di se, si sentiva fragile ed insicura come a casa sua; sino a quando in quel museo, quello strano museo tutto tubi e scale, avevano visto le “istallazioni” di un grande artista tra cui una grande e rotonda stanza rossa. Tutto era rosso in quell’ambiente: le lisce pareti curve, le sedie e i tavolini, persino i pavimenti erano di colore rosso intenso. Si aveva quasi l’impressione di stare dentro una caverna, rossa e calda, quasi un grande utero nella mente dell’artista. Lì quel tremito interiore e quel senso di fragilità, mentre beveva una tisana, l’aveva perso. Si era sentita per la prima volta bene, con la mente chiara e con un senso di sicurezza che appena uscita aveva però perduto. Così da quel momento Parigi era divenuta quella stanza, e c’era tornata ogni giorno che rimaneva al ritorno, per potersi sentire per un momento di nuovo se stessa, in mezzo a tutto quel rosso. E che sì, lo sapeva, la malattia era alle spalle oramai, era stato in fondo solo un inciampo nel percorso della sua esistenza, come un’interruzione sulla linea della vita della mano, che poi riprende il suo percorso. Ma, se sapeva tutto questo, perché ora il panico? E perché il sogno ed il terrore di uscire in mezzo all’insicurezza del mondo ?

Vide più volte la dottoressa nei mesi successivi, periodicamente. E visto che ogni tanto la paura ritornava e non riusciva ancora a sentirsi libera di andare in giro, accettò di partecipare alla terapia di gruppo che lei conduceva con i ricoverati più problematici. Non che le piacesse parlare in pubblico dei suoi problemi, ma capì che quello poteva essere un mezzo per aiutarsi, e andò. Si stupì di ritrovare alcuni dei pazienti che erano stati suoi compagni di sventura in quel reparto. Così, tutti lì seduti in cerchio, dopo un po' le venne voglia pure di parlare ed intervenire. La vita riprese e la paura a volte tornò, ma non le faceva più così paura ormai quando arrivava, o almeno non gliene faceva come prima. Iniziò anche a muovere qualche passo in giro per la città andando per negozi, sempre più intrepida. I giorni che passarono, divenendo settimane e mesi, li affrontò con la consapevolezza che era come se stesse di nuovo imparando a camminare sulle proprie gambe, portando sulle spalle quei problemi che non venivano solo dal ricovero, ma da tutta una vita, con cui doveva fare i conti da sempre. E continuò, in quel lungo e incerto ripercorrere la vita, come fosse la strada che ancora le causava la vertigine.

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-Il Pensiero Scientifico Editore
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-La rivista Scenario e L'Aniarti
-IL Giornale Italiano di Medicina
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Pavia ISSN 1592-7830
http://gimle.fsm.it
-Quotidiano di Sicilia

-Intensive Care Med 2004 Ed. Italiana
-Biomed Central Open Acces
http://www.biomedcentral.com/

-Evidence 
www.evidence.it

 

 

 

Aggiornato al: 20 Dicembre 2012



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